mercoledì 25 novembre 2009

BARTLEBY E COMPAGNIA

Subisco il fascino degli scrittori che smettono di scrivere. Una vocazione è anche una mania, e liberarsene non è meno difficile che portarla a compimento. Darà lo stesso tipo di piacere? Oppure ne darà uno tutto diverso - il sollievo che si prova guarendo dalla febbre, o respirando dopo una lunga apnea, o camminando all’aria aperta dopo anni di galera? Io immagino un senso di enorme liberazione. Potersi svegliare di fronte alle possibilità del quotidiano, godere delle esperienze mentre accadono, pensare alla propria felicità non più in termini di scrittura o non-scrittura, ma di oggetti più sani come per esempio: persone, luoghi, incontri, azioni. Essere Neal Cassady invece di Jack Kerouac. Essere Arthur Rimbaud invece di Paul Verlaine. Non significherebbe perdere l’amore per la letteratura: anzi forse diventerebbe un amore più puro, come diceva Derek Walcott nei versi di Vulcano.


Si potrebbe anche abbandonare la scrittura

davanti ai segnali di lenta combustione

dei grandi, ed essere invece

il loro lettore ideale, riflessivo,

affamato, conscio che è superiore

l’amore per i capolavori

al desiderio di ripeterli o eclissarli,

e diventare così il miglior lettore del mondo.


Non pensavo più a questa faccenda da un po’ di tempo, cioè da quando uno scrittore e una scrittrice decisero, ognuno a modo suo, di smettere di scrivere per sempre. Mi è tornato tutto in mente leggendo un libro di Enrique Vila-Matas, Bartleby e compagnia, uscito in Spagna nel 2000 e in Italia nel 2002, e ora ripubblicato in edizione tascabile per Feltrinelli. Vila-Matas è uno di quegli scrittori che lui stesso chiama gli anti-Bartleby, cioè i grafomani alla Simenon o alla Scerbanenco, ma in questo saggio-romanzo finge di essere uno scrittore finito, uno che ha pubblicato il suo libro d’esordio venticinque anni prima e poi ha smesso, e ora si dedica a studiare gli agrafi come lui. I Bartleby. Quelli che alla vocazione rispondono, come lo scrivano di Melville, preferirei di no.

Il libro è una raccolta di vite esemplari. Così come ogni scrittore ha il suo stile, anche ogni non-scrittore ha dovuto percorrere una strada diversa per arrivare al silenzio. Intanto, occorre dare una risposta a chi ti chiede come mai non scrivi più. Allora si può fare come Duchamp che rispondeva: che cosa ci vuol fare, signora, non ho più nemmeno un’idea! O come Alfau, che arrivato a una certa età si dedicò allo studio delle lingue straniere, e dichiarò che dopo aver imparato l’inglese, cominciano le complicazioni. O come Vaché secondo il quale, molto più semplicemente, l’arte è una stronzata. O come Rulfo, forse il più grande scrittore messicano, che aveva elaborato la risposta perfetta: perché è morto lo zio Celerino, quello che mi raccontava le storie.

E poi, ci sono le cose che gli scrittori fanno dopo avere smesso di scrivere. C’è Rimbaud in Africa, dedito a contrarre la sifilide e commerciare in schiavi. C’è Melville che, dopo il fiasco di Moby Dick, si impiegò alla dogana del porto di New York e ci rimase per il resto dei suoi giorni. C’è Henry Roth e la vicenda del suo unico capolavoro, Chiamalo sonno, trascurato per molto tempo da pubblico e critica, tanto che l’autore occupò l’intera vita senza scrivere più una riga, facendo il pompiere, l’operaio, l’insegnante, viaggiando per gli Stati Uniti e finendo a vivere in un campeggio di roulotte, finché il romanzo fu ripubblicato e Roth raggiunse la fama dopo avere smesso di scrivere da trent’anni. Ci sono i pazzi come Rober Walser, che morì in manicomio riempiendo minuscoli bigliettini con un’indecifrabile letteratura, o Guy de Maupassant, che all’apice del successo si trafisse con un tagliacarte credendosi immortale, e terminò i suoi giorni camminando a quattro zampe e leccando l’intonaco dai muri. Poi c’è la schiera dei suicidi a cui Vila-Matas non dedica molta attenzione, perché smettere così è troppo facile. E poi c’è Tolstoj, il mio preferito, forse il più anziano tra gli scrittori che decisero di liberarsi dalla scrittura. Nel 1910 aveva ottantadue anni, ed era probabilmente il romanziere più famoso al mondo. Una notte aprì il diario che compilava da quando era ragazzo, cominciò a trascrivere il suo proverbio preferito (Fais ce que dois, advienne que pourra: “Fa’ quello che devi, succeda quel che succeda”) ma lo interruppe a metà frase. Le migliaia di pagine dei diari di Tolstoj, autore di storie immortali, finiscono così: Fais ce que dois, adv

Dopo la v, decise di smettere di scrivere per sempre. Era perseguitato dalla moglie e dalla scrittura, che riteneva, rispettivamente, una grandissima rompicoglioni e la principale responsabile del suo fallimento morale. Fuggì di casa in piena notte e morì di polmonite una settimana dopo, nella sperduta stazione ferroviaria di Astapovo, per avere viaggiato nell’inverno russo al freddo della terza classe.

Si potrebbe concludere di nuovo con Marcel Duchamp: Le parole non hanno assolutamente alcuna possibilità di esprimere nulla. Nel momento in cui cominciamo a tradurre i pensieri in parole e frasi, va tutto in malora. Oppure con Bobi Bazlen: Credo che ormai non si possano più scrivere libri. Per cui non ne scrivo più. Quasi tutti i libri non sono altro che note a pie’ di pagina, gonfiate fino a diventare volumi. Oppure con Paul Celan:


Se venisse,

se venisse un uomo

se venisse un uomo, al mondo, oggi, con

la barba di luce dei

patriarchi: potrebbe solo,

se parlasse di questo

tempo, solo

potrebbe balbettare, balbettare

sempre sempre

soltanto soltanto.


Enrique Vila-Matas, Bartleby e compagnia

(Traduzione di Danilo Manera, Feltrinelli 2002)

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